José Luis Romany, insegnante e amico – Eduardo Mangada

José Luis Romany, insegnante e amico – Eduardo Mangada
José Luis Romany, insegnante e amico – Eduardo Mangada

Nel 1950, con dubbi sul mio futuro professionale, cercavo un insegnante di disegno per preparare il mio ingresso alla Scuola di Architettura di Madrid. Per fortuna ho trovato il mio primo maestro, che mi ha aperto gli occhi sull’architettura e ha guidato, in larga misura, i miei primi passi della maturità. Da allora sono trascorsi settantaquattro anni di comprovata amicizia.

José Luis Romany fu un uomo profondamente religioso, non solo per la fede cristiana che professava, ma anche per il modo aperto e cordiale con cui accoglieva le persone che si avvicinavano a lui. Persone, alberi o animali, il Mediterraneo o l’austera Castiglia hanno costruito il mondo attraverso il quale camminava, sempre rispettoso e attento. Celibe di sua spontanea volontà, meditato e senza ansia. Cattolico anticonformista, lontano dalla gerarchia e vicino ai “diseredati della terra”, nel Pozo del Tío Raimundo o a Conil, nell’Hort de Polar, o nell’esercito, fu un riflesso fedele e gentile della “teologia di rilascio’.

Potresti perderti questa introduzione in poche righe di omaggio e di addio. Ma questa religiosità silenziosa ha segnato la sua vita, sia quella più privata sia quella in cui ha svolto il ruolo di architetto aperto e attento alla società che lo circondava. Sempre gentile, ma aggressivo contro le ingiustizie. E la bruttezza. Ha vissuto 103 anni tenendo gli occhi aperti alla bellezza e alla bontà.

Buon pittore, copista del Prado, per vocazione e necessità, preparava tele, pennelli e colori – comprese le tempere rinascimentali – con la cura e la parsimonia del buon artigiano, impastando acqua, tuorlo d’uovo, glicerina e altri ingredienti.

Ma, soprattutto, un magnifico disegnatore, capace, con un tratto esatto e sensibile, di ricreare un paesaggio o di annunciare, in pochi primi schizzi, un progetto. in nuce. Per commuoversi davanti alla sensibilità e alla competenza di Romany basta sfogliare il libro. I giardini di Granada e contemplare le linee squisite con cui costruì i giardini dell’Alhambra, del Generalife e di alcuni cármenes. Disegni capaci di farci sentire la voce cantata dell’acqua mentre percorriamo, con brevi salti, il canale d’irrigazione trasformato in parapetto della ‘scala delle cascate’ del Generalife.

Fotografo della domesticità che ancora trasudano le vecchie case contadine, nella Marina Alta intorno a Denia. Alcuni ceri pendono da una traversa, tinti d’ocra; una robusta sedia da villaggio accanto al tiglio; un aratro romano abbandonato, davanti alla porta; una malinconica sedia a dondolo in soffitta; dei sacchetti in cui la mandorla risuona e lascia fuoriuscire il dolce profumo dell’uvetta. Tutti simboli che ricordano chi qui ha vissuto e lavorato. E, come segno nostalgico, una gabbia con due tortore, oggi scomparse.

Dietro l’occhio del fotografo, l’occhio e la mano dell’architetto, che con amore e precisione ha rialzato piante, prospetti e sezioni, insieme ai dettagli, tutti accuratamente disegnati e rigorosamente delimitati.

E urbanista, nel senso profondo di questa parola, di cui può appropriarsi solo chi è capace di leggere la città e la sua geografia; interpretarlo come fabbrica architettonica e spazio sociale di convivenza; spiegatelo e se avete il coraggio di proiettarlo. E i rom erano, senza aver letto la Legge della Terra, né compreso quello che chiamano ‘uso medio’, appena camminatori per paesi e città, sempre legati ai loro abitanti che li abitano e danno loro vita e forma.

Incurante dei ritmi amministrativi, ha saputo incarnare il meglio della “pianificazione urbana pianificata” e questo è ciò che possiamo affermare io e Carlos Ferrán, quando gli abbiamo chiesto aiuto, fino a pochi mesi fa, nella stesura di un Piano Parziale, ovvero il progetto di un nuovo quartiere. Troviamo sempre la sua mano e la sua sensibilità geografica per sintetizzare e migliorare il nostro lavoro, con un layout esatto, una volta spazzata via la spazzatura burocratica.

E anche di più. Un buon architetto, senza aggettivi più maestosi. Con continua illuminazione, si assunse il nobile compito di fornire rifugio a coloro che a malapena avevano un tetto sopra la testa. Si trovò di fronte al difficile problema di progettare gli alloggi richiesti dai milioni di nuovi abitanti che cercavano una vita dignitosa nella città. La casa di quel cliente anonimo, senza dimenticare che, uno per uno, avevano nome e cognome, famiglia e luogo di nascita.

Si collega così al motore della modernità: l’edilizia sociale. Povero e piccolo, collettivo e alla portata del nuovo soggetto storico: il proletariato. Povero nei materiali, piccolo per l’imposizione dell’economia e conveniente per i requisiti costituzionali. La piccola dimensione divenne spaziosa e dignitosa nelle mani di architetti come Romani. Mattoni economici e uralite diventarono architettura, con proporzione. E, con la modestia d’obbligo, i nuovi cittadini hanno potuto avere qualcosa di più di una casa: una casa.

E una sorpresa. Romany, qualche anno fa, in concomitanza con un periodo di scoraggiamento, è diventato un esperto aeromodellista. Ha imparato ed è diventato un abile costruttore di aquiloni. Listelli in legno leggeri e resistenti; Tessuti leggeri e resistenti di diversi colori, che combinava e cuciva lui stesso, riuscivano a prendere il volo e a creare rischiose piroette. Cercavamo campi aperti nei dintorni di Madrid e, sdraiati su una coperta, li facevamo correre nel cielo azzurro. Ho ancora un paio di quegli uccelli.

Come artigiano si dedicava a costruirli, come poeta sognava quando li faceva volare. E da benefattore, scoprì che, con quelle invenzioni, Juanito, un ragazzo di Salamanca senza lavoro fisso, poteva aprire un negozio a Jávea e guadagnarsi da vivere dignitosamente vendendole a turisti e villeggianti, sulle rive del Mediterraneo. Tutto in silenzio, come il volo di quei tessuti colorati, che hanno preso corpo e forma grazie alle mani di un bravo architetto.

Il nome di José Luis Romany è legato alla pletora di ‘giovani architetti’ che aprirono la Spagna alla modernità, ancora in tempi di dittatura. Li conoscevi e li conosci e li rispetti ancora e, in questo momento, stai rivedendo, in mente, il nome di ognuno di loro, con il timore di dimenticarne qualcuno. Architetti che hanno portato la modernità, l’hanno appresa con fatica, l’hanno raffinata, adattandola alle condizioni di una Spagna ancora rimpicciolita, senza perdere il rigore disciplinare e l’impegno etico inerenti a quell’epopea. E lo hanno trasmesso alle promozioni successive.

Per me e Carlos Ferrán, il nome di Pepe Romany è sempre stato legato a quello di Paco Oíza. Entrambi sono stati i nostri due grandi maestri. Abbiamo imparato lavorando con loro. In tavole molto vicine, abbiamo ascoltato le loro conversazioni, i loro dibattiti, le loro idee, che abbiamo conservato nella nostra memoria come una bibbia dell’architettura. Avevamo così tanto amore e rispetto per loro. Ci hanno accolto con tale generosità e ci hanno trasmesso le loro conoscenze che prima di un anno in studio, ci hanno invitato ad affiancare il nostro studio di architettura al loro. Da pari a pari!!!

Quelli di noi che sono stati testimoni della fruttuosa collaborazione di Oíza e Rom possono e devono testimoniare il loro rispetto reciproco, nell’amicizia e nel lavoro. L’impeto traboccante di Oíza fu domato dalla calma di Rom, che fece suoi, senza servitù, i bagliori abbaglianti di Paco, per dar loro forma in una comunione di sforzi e di amore per l’architettura.

 
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