Marcelo Cohen: un poeta nascosto nelle sue finzioni

Marcelo Cohen: un poeta nascosto nelle sue finzioni
Marcelo Cohen: un poeta nascosto nelle sue finzioni

Alcuni penseranno che ci sia qualcosa di arbitrario nell’inserire, nel vasto elenco di poeti e poesie dimenticate dalla prosaica crudeltà di questi giorni, uno scrittore che ha ottenuto il suo giusto riconoscimento in mirabili racconti, saggi e traduzioni.

La verità è che Marcelo Cohen (1951-2022), autore di romanzi come Insomnio (1986) e Il testamento di Ojaral (1995), dei racconti di The End of the Same (1992), di saggi come Really Fantastic (2001) e creatore del singolare universo del Delta panoramico, traduttore di Shakespeare e Raymond Rousell, di JG Ballard e Clarice Lispector, non solo coltivò, come tanti, il verso confessionale e doloroso dell’adolescenza. Ha costruito le sue finzioni anche a partire da una vocazione poetica che, lungi dall’essere ornamentale, contribuisce a far mancare l’aria già rarefatta delle storie che si dipanano, attraverso un respiro sempre nuovo, sostenuto in ritmi surrettizi, aggettivi inattesi e felici neologismi, che in molti casi rendono la lingua è un altro protagonista della narrazione. Non è necessario addentrarsi molto nei romanzi e nei racconti di Cohen per imbattersi in momenti in cui irrompe la poesia, non per colorare il narrato con accenni di raffinatezza ma come modo per coagulare significati o installare il lettore in una dimensione emotiva del l’esperienza, con l’economia della scorciatoia o dello slancio del tuffatore che solo la parola poetica può esercitare. Vedi: “Il cielo non sembra il cielo ma piuttosto il tetto di una grande caverna. Basso e immobile, da bordo a bordo ha il colore del tungsteno, e dalle oscillazioni della nebbia ricava false striature di umidità, macchie di amnesia e di errore. Il cielo incombe sul mare, lo appesantisce, lo offusca, non per cattiva volontà ma perché la nebbia e l’aria incandescente, emissarie frastornate, si sono abbandonate al peso di una malattia più grande” (“L’illusione del monarca”).

In ogni caso, non bisogna dimenticare nemmeno l’ospitalità di Cohen verso la poesia degli altri. Da un lato, nelle sue traduzioni attente e necessarie – la sua magnifica traduzione dell’Adagia di Wallace Stevens (Interzona), o le sue versioni di Shakespeare (Norma), per esempio. E, dall’altro, nella sua generosità nel recensire o presentare libri di poesia altrui. Chi scrive questo può dare testimonianza personale e grata di quest’ultimo.

Agli autoritari questo non piace

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Ma anche, in maniera sbilanciata verso la sua inevitabile produzione narrativa e saggistica e come traduttore, Cohen continuò a scrivere poesie sporadiche, con versi lunghi, ingannevolmente liberi e carichi delle sottigliezze ritmiche di un orecchio finissimo e delle speculazioni di una delicata immaginazione. . Infatti, nel numero 37 di Diario de Poesía, pubblicato nell’aprile 1996, insieme ad un’intervista che Cohen ebbe con Daniel Freidemberg, DG Helder e Daniel Samoilovich, vengono pubblicate due corpose poesie fino ad allora inedite: “Gesti durante gli addii” e “Satellitare”.

In quel discorso, Cohen condivide riflessioni sulla poesia che meritano attenzione: “Ogni volta che leggi una grande poesia hai meno paura della morte. La poesia è la grande terapia. Perché tratta la morte come tratta la vita”, dice. E, più avanti: “La poesia ci permette di vedere, sospendendo la proliferazione del pensiero. (…) La forza emotiva della poesia ha a che fare con ciò che il mondo dà nel momento in cui il mondo è in pericolo, sapendo che il mondo è sempre in pericolo per tutti.”

Nel 1970, cioè ventisei anni prima di quelle affermazioni e quelle poesie, Marcelo Cohen, diciannove anni e attivo con riluttanza nel Partito Comunista, frequentò il laboratorio letterario Aníbal Ponce presso il Teatro IFT, coordinato dal PC. Alcuni dei suoi colleghi di allora, che poi proseguiranno con lui nella ricordata bottega di Mario Jorge De Lellis, sono: Daniel Freidemberg, Alicia Genovese, Rubén Reches, Irene Gruss, Jorge Aulicino e un intermittente e oggi improbabile Jorge Asís.

“Marcelo è stata la prima persona con cui sono entrato in contatto quando sono entrato nel laboratorio di Aníbal Ponce”, mi dice ora Freidemberg. “Ricordo di aver letto una poesia e Marcelo mi disse: ‘Ah, sembra che tu sia un lettore di Gelman.’ Sono stato molto felice di incontrare un altro lettore di Gelman. Poco dopo, già nel laboratorio della De Lellis, condividemmo ancora qualche anno. Marcelo scriveva poesie in quegli anni, sì. In effetti lo abbiamo fatto tutti, anche se lui in misura minore rispetto agli altri, perché stava già emergendo come narratore e stava per pubblicare il suo primo libro di racconti: “Ciò che resta”. E, anche se probabilmente quasi tutti abbiamo scritto delle sciocchezze, avevamo già una grande stima della qualità letteraria dei testi. Marcelo è stato, in questo senso, un grande mobilitatore. Un giorno portò al laboratorio i Quattro Quartetti di Eliot e, per noi, fu uno shock.”

Nel 1970, come già accennato, quando frequentava il laboratorio di Aníbal Ponce e ancora non si decideva a riversare la sua qualità poetica nella narrazione per plasmarla come pochi altri, Cohen pubblicò questa poesia fresca e luminosa, intitolata “Manolo”, nel numero 5. della rivista oggi introvabile Suburbio, che ho ritrovato, per caso, poco dopo la morte di Marcelo, nello studio dello psicanalista ed ex libraio Abel Langer, mentre lo intervistavo:

Il saggio racconta come viene detto

[de la calle

que no tenía nacimiento.

A veces, sí, 

se apreciaba de un vientre

[triste,

una madre invernal y

[preguntona,

el hogar, los libros, un 

[hermano. 

Venía de más atrás de las

[cosas

perdido en un camino marrón

con mesas y poemas y 

[lagañas.

Tenía una lágrima en los 

[dientes,

una mentira caprichosa,

la alegre fanfarronería del 

[alegre,

la moneda triste del no puedo.

Una vez casi se muere:

quedó robado entre los 

[muslos 

de una mujer que hacía el 

[amor

como en el agua.

Después 

tuvo vergüenza,

sus piernas caminaron sin 

[mirarse.

Pero no pidió ni un cigarrillo 

[solidario,

aguantó solo toda la lluvia de 

[la noche.

A la mañana ya reía

[nuevamente.

Pensó que estaba vivo 

y se fue a lavar la cara. 

No más pruebas, su señoría. Vaya uno a saber cuántos otros hermosos versos de Marcelo Cohen esperan agazapados en alguna isla secreta del Delta Panorámico.

 
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