Harold Halibut, le avventure di un custode nello spazio

Tempo di lettura approssimativo: 2 minuti e 14 secondi

Fin dalla tenera età, le produzioni in fermare il movimento Occupano un posto speciale nei miei gusti cinematografici. La meticolosa pazienza richiesta quando si anima ogni fotogramma e si dà vita a oggetti inanimati mi ha sempre affascinato. Questo stile di animazione unico combina fotografia, teatro e scultura per creare mondi con un’anima unica e insostituibile. Esempi famosi sono i nastri della fabbrica britannica Aardman, o i lavori con questo metodo creativo di Tim Burton, Wes Anderson, Charlie Kaufman e Guillermo del Toro.

Né posso non citare il notevole cortometraggio cubano Venti anni (Bárbaro Joel Ortiz, 2009) e quel gioiello del cinema australiano chiamato Maria e Massimo (Adam Elliot, 2009). Quest’ultima, la cosa migliore mai realizzata utilizzando l’animazione del volume, altro nome con cui è conosciuta la tecnica.

Come risultato di questo interesse, la prima di Harold Halibut catturò subito l’attenzione di chi scrive, trattandosi di un videogioco con tale estetica (dico “estetica”, perché non siamo in presenza di fermare il movimento tradizionale; Qui hanno digitalizzato gli oggetti attraverso un processo noto come fotogrammetria, e poi li hanno animati nel motore grafico Unity) e con più di dieci anni di sviluppo alle spalle.

È stato avere l’opportunità e iniziare a giocarla con la migliore disposizione. Ma quando arriva il momento della recensione, e nonostante il virtuosismo presente nella sezione visiva, posso solo descriverlo come un’enorme delusione. La colpa è di una sceneggiatura che non funziona, sulla quale Slow Bros., lo studio tedesco dietro al progetto, ha scommesso pesantemente, invano.

E l’interessante premessa fantascientifica suggeriva il contrario. Anni Settanta del XX secolo, piena Guerra Fredda. Lo scenario mondiale teso in quel momento ha motivato la creazione della Fedora I, un’arca spaziale il cui scopo è garantire la conservazione dell’homo sapiens di fronte all’imminente apocalisse nucleare.

Gli affidano anche la missione di trovare la nuova casa dove vivrà la specie. Dopo 200 anni di sosta su diversi pianeti privi delle condizioni necessarie, la nave si schianta e rimane intrappolata nelle profondità di uno completamente coperto dall’acqua.

Il gioco inizia mezzo secolo dopo l’incidente. Il protagonista è Harold Halibut, assistente di laboratorio (posizione estremamente eufemistica, visto che in pratica funge da custode del luogo) della scienziata capo della colonia, Jeanne Mareaux, che nonostante il tempo in cui l’arca è rimasta arenata conserva ancora la speranza di creare l’arca piano di fuga in grado di consentire loro di lasciare la prigionia subacquea.

Altri punti di interesse presenti nell’argomentazione iniziale sono la cospirazione contro All Water Corp., la società che fa capo a Fedora; e quello legato alla civiltà aliena proprietaria del pianeta. Il timido Harold è coinvolto in ognuno di essi.

Sebbene nella sua presentazione la storia prometta molto, quella sensazione scompare a poco a poco, fino a raggiungere il punto di essere soporifera.

La durata influenza completamente il segnale precedente. Nei videogiochi, le narrazioni così contemplative (oltre alle infinite passeggiate alla ricerca della parte successiva dell’avventura, molto occasionalmente quando appare un’azione da compiere) variano dalle tre alle quattro ore. Harold Halibut verso le dieci.

Tale eccesso diluisce le sue parti lucide. Perché il gioco li ha. Penso alla sottotrama in cui Harold legge lettere scritte decenni fa, che non sono mai arrivate ai destinatari. O in quella scena in cui canta dell’esistenza di routine che conduce. Ci sono dialoghi e situazioni di particolare sensibilità. Anche se sono eccezioni isolate, incapaci di far valere i 600 minuti di riprese. La maggior parte delle volte assistiamo ad una storia infantile, piena di personaggi unidimensionali e incapace di suscitare l’interesse del giocatore. Lo ripeto, il titolo esibisce una facciata maestosa; ma l’interno dà l’impressione che stia per crollare. Questo è il grosso problema Harold Halibut.

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