Nelle ultime settimane sono sorti e riemersi dibattiti attorno ai luoghi dell’enunciazione all’interno della letteratura. Da un lato, il discusso articolo di Aloma Rodríguez su El Mundo sul presunto boom delle scrittrici spagnole e sulla loro assimilazione da parte del mercato. D’altro canto, la critica di Alberto Olmos all’ultimo romanzo di Sara Barquinero, Scorpioni (Lumen, 2024), che, volendo apparire brutalmente onesto, finisce per affidarsi agli stessi cliché e strumenti che la critica letteraria maschile ha storicamente utilizzato per screditare e rendere invisibile la scrittura femminile, come sottolinea Joanna Russ nel suo saggio Come impedire alle donne di scrivere (Dos Bigotes e Barrett, 2018).
E, durante quelle pubblicazioni, le risposte della scrittrice Sara Torres in un’intervista a Vanity Fair sull’onestà di segnare l’origine del luogo di enunciazione – in termini di classe, genere e sessualità – hanno acceso un dibattito su Twitter (o X) in in cui si è discusso se si debba celebrare quella stessa onestà riguardo al luogo da cui si scrive e si parla o se, invece, si possa creare una mistica dello spazio stesso dell’enunciazione – che forse non solo è irraggiungibile per molti, ma addirittura violenti o dannosi per la vita, gli scritti e l’accesso alla scrittura di molte vite. E mentre trovo che le domande che sorgono intorno alla letteratura e al suo rapporto intrinseco con le identità e il mercato e con i desideri e i bisogni dei consumatori e dei lettori – che a volte sono purtroppo gli stessi nel nostro sistema capitalista – siano molto interessanti, le domande mi assalgono. : Perchè tutte queste interazioni sui social network mi annoiano sempre di più? Il dibattito online è finito, almeno per me?
Non è solo un’intuizione che i social network, e soprattutto Twitter, siano diventati luoghi deputati al monologo reattivo ed esterno: per il limite che abbiamo nei loro personaggi a spiegarci, sì; ma soprattutto perché c’è una chiusura della conversazione che l’algoritmo stesso premia. Ad esempio: un “mi piace” su un post ottiene un impulso di visualizzazione trenta volte maggiore di un commento, facendo sì che ciò che ci viene mostrato maggiormente sui nostri schermi siano le pubblicazioni a cui reagiamo e non le conversazioni che si generano. E quella ricompensa è stata trasferita ai meccanismi interattivi del social network, che mirano più alla “zasca” che a un’intenzione genuina di conversazione, di dibattito, di attrito che un movimento promette e che – sì, un po’ banale, ma è vero, ci trasforma perché ci fa riflettere e interrogarci.
D’altra parte – ed è questo che mi annoia davvero – penso che ci sia una certa ostinazione nel prendere il posto dell’enunciazione come quasi unico elemento interpretativo della letteratura. Chi è uno – e utilizzo il femminile come marcatore consapevole di genere – viene preso non solo come biglietto d’ingresso all’opera e a ciò che ruota attorno all’opera ma come centro di discussione, addirittura spostando l’opera stessa dal cuore dell’analisi .
Basta vedere che ogni libro di un certo successo deve essere accompagnato e supportato da un discorso critico impeccabile che lo scrittore deve difendere e far sì che non vacilli minimamente. L’opera letteraria va difesa da un discorso extratestuale e, spesso, extraletterario. Perché la letteratura e i libri parlano di cose al di fuori dei libri, sì; ma anche – e questa è un’intuizione – perché siamo desiderosi di discorsi che tolgano l’ansia creata dall’incertezza morale: cosa dovrei pensare? Perché è giusto o sbagliato? Qual è la strada da seguire?
Ciò che sto per dire, invece, non è una novità e Pau Luque lo mostra mirabilmente nel suo saggio Cose come sono e altre fantasie (Anagrama, 2020): la letteratura è un discorso immaginifico, il luogo dove ci si può travestire – sottolineando la sfumatura che il costume ci regala come qualcosa di costruito, artificiale e festoso – o dove si può essere un altro, anche molti altri. E la letteratura – almeno quella che mi interessa – è uno spazio che apre alla contraddizione, alla domanda, ci invita a interrogarci su cosa siamo, perché agiamo così e come le parole e le cose sono fantasticamente e fantasticamente legate. Il luogo da cui ci esprimiamo, ovviamente, è molto importante per determinare cosa, a chi, come e perché o perché non scriviamo.
Non esiste nemmeno una forma letteraria che non sia determinata da chi siamo, da dove veniamo, chi e con chi parliamo, con chi e come possiamo parlare.
In questo senso, non esiste relazione sociale, culturale ed emotiva che non sia determinata da un rapporto di classe, genere, razza e disabilità, tra le altre disposizioni sociali, culturali ed economiche. Non esiste nemmeno una forma letteraria che non sia determinata da chi siamo, da dove veniamo, chi e con chi parliamo, con chi e come possiamo parlare. Cioè, la vita e la letteratura sono strettamente legate. Eppure, ritengo che le dinamiche imposte ai social network e al giornalismo erodano dibattiti e conversazioni preziosi ed energizzanti sulla letteratura. Non stiamo quasi necessariamente cadendo nella trappola di parlare in termini di sottogeneri letterari? Non stiamo forse chiudendo le etichette – a volte al limite dell’essenzialista – che impediscono a molte delle voci storicamente dislocate di far parte della storia della Letteratura con la lettera maiuscola?
A questo proposito Monique Wittig, nel suo celebre saggio Pensiero eterosessualeesprime la preoccupazione che gli autori non eterosessuali vengano letti solo in base al loro luogo di enunciazione e ai loro temi: “Scrivere un testo che abbia l’omosessualità tra i suoi temi è una scommessa, è assumere il rischio che in ogni momento l’elemento formale che è il tema che sovradetermina il significato, monopolizza tutto il significato, contrariamente alle intenzioni dell’autore, che vuole soprattutto creare un’opera letteraria.
La loro preoccupazione è che se ci si concentra solo o in generale su questi aspetti, queste opere e questi autori verranno – come è già accaduto in tanti altri momenti della storia della letteratura – trattati come una nicchia, come un sottogenere letterario ingiusto che non consente loro partecipare a conversazioni e discussioni di letteratura. Prendendo i libri come simboli, letti da un punto di vista esatto, il testo perde la sua polisemia, perde tutta la capacità di esplodere in mille sensi, la sua ambiguità, le sue frizioni, la sua capacità di azione.
Uccidi gli autori
Per non chiudere i lavori, per non chiudere i nostri dibattiti in monologhi, una proposta provvisoria: non dovremmo, come ha fatto Roland Barthes nel suo articolo La morte dell’autore, uccidere gli autori? Intendo, in senso figurato, spostare una posizione che sembra troppo importante nei nostri dibattiti. Uscire cioè da una fissazione quasi forzata a guardare e interpretare dal luogo dell’enunciazione, dell’identità; smettere di prendere la biografia, il racconto o l’immagine dell’autore come chiave interpretativa, se non unica, almeno molto importante. Ciò non significa, ovviamente, che questo luogo non sia uno spazio aperto alla critica e alla discussione e/o che abbia rilevanza nel nostro pensiero letterario e addirittura che sia costitutivo, ma significa che può essere spostato dalla sua egemonia. mettere al centro le opere e i libri. Non bisogna fraintendersi: questo non significa l’invisibilità dell’origine del lavoro degli autori, ma piuttosto un tentativo di approfondire la ricca complessità che le opere letterarie offrono.
Questa ipotetica morte degli autori potrebbe significare non raggiungere un centro desiderato, ma piuttosto moltiplicare i centri, dislocarli, deviarli, allargarli, renderli impossibili. Forse significa smettere di considerare il soggetto universale come quello mascolinizzato – tra le altre posizioni sociali e culturali – e equipararlo agli altri luoghi di enunciazione, destabilizzandolo. E da lì poter ampliare cosa significa Letteratura, cosa implica, chi può e chi non può accedervi. Forse questo significa esaurire la motivazione del tema o del luogo di enunciazione, come sottolineava Wittig, per smettere di determinare (altrettanto) l’interpretazione, per non soffocare la pluralità dei significati. E poter così dire: “questo testo è incredibile” oppure “questo testo è una merda”, ma che a nostro giudizio non ha la precedenza tanto chi lo ha scritto ma come lo ha scritto. Che la vita dello scrittore non tolga la vita al testo. Metti i libri al centro affinché gli stessi smettano di essere sempre al centro.