Julián Herbert e il suo nuovo libro

Julián Herbert e il suo nuovo libro
Julián Herbert e il suo nuovo libro

Momento della lettura: 7 minuti

Per ragioni che non vale la pena di spiegare, nell’agosto del 2018 ho cucinato tre pasti al giorno per ottanta persone per sei giorni. È stato un lavoro estenuante. Mi ha dato rispetto per chi si dedica, figuriamoci all’arte culinaria: a lavare i piatti nel retro del banchetto. Da allora cucino due o tre volte a settimana. Con risultati mediocri, ma con tanta vocazione, direbbe Borges. In parte è una questione di famiglia, perché mio figlio Arturo ha studiato gastronomia e questa pratica è arrivata ad unirci in modo nuovo. Ma c’è anche un aspetto estetico. Nei sei giorni trascorsi a lavorare in cucina, dalle cinque del mattino alle undici di sera, mi sono ricordato di una lezione che la letteratura mi aveva già insegnato prima, ma che forse a un certo punto ho dimenticato: invece di dedicarti a mettere le cose in ordine fornello, per cucinare devi tritare e tritare, sbucciare e sbucciare, lavare e lavare. Fare cose apparentemente semplici e in qualche modo assurde ancora e ancora. Ovviamente serve un metodo. Ma soprattutto devi esercitarti finché non stai male. Costruisci una routine. L’idea della cucina mi ha fatto viaggiare verso un paio di storie. Il primo ha a che fare con la musica, il secondo con lo Zen.

Si dice che quando era professore di composizione musicale in un’università di New York, John Cage insegnasse le sue lezioni portando i suoi studenti nella foresta a raccogliere funghi. Il corso consisteva nell’imparare quali funghi erano velenosi, quali avevano determinate proprietà: quelli deliziosi, quelli che si possono preparare in molteplici modi, quelli che si possono assaggiare solo due o tre volte senza morire. Interrogato su questo peculiare modo di istruire i nuovi compositori, Cage ha affermato che, per lui, il nucleo dell’esperienza creativa non è la tecnica, ma l’osservazione. Ed è un parere suggestivo, perché un artista può padroneggiare questa o quella tecnica, ma l’unico modo per metterle in pratica è trovare meccanismi quotidiani che permettano di restare in contatto permanente con la materia estetica. questione estetica è una nozione coniata da Luigi Pareyson e successivamente sviluppata da Umberto Eco nel suo libro La definizione dell’art. Eco propone che il lavoro dell’artista (in questo includo il lavoro di chi scrive) sia di natura di fabbrica: si lavora utilizzando determinati materiali (materiali linguistici nel nostro caso) ai quali bisogna applicare una forza di elaborazione.

La seconda storia, quella che viene dallo Zen, parla della natura non trasferibile della routine.

Nel XIII secolo, Eihei Dōgen, fondatore della scuola buddista giapponese Soto Zen, scrisse un breve manuale intitolato Istruzioni per il cuoco. Si tratta di una riflessione sull’importanza delle abitudini quotidiane e sul rispetto di alcune norme, forme e strutture focalizzate non solo sull’istituzione monastica, ma anche sul lavoro interiore. Il documento descrive quali sono le cose che il cuoco deve fare, a partire soprattutto dalla notte: come si incontra con i direttori spirituali per concordare il menù del giorno dopo, quando gli daranno le provviste perché possa iniziare a cucinare, quali sono le loro responsabilità specifiche. Una delle cose su cui Dōgen insiste è che il lavoro fondamentale di pulizia del riso deve essere svolto dal cuoco stesso; Non è una pratica delegabile. L’autore approfondisce questo punto narrando il suo arrivo in Cina, dove trascorrerà dodici anni dedicati allo studio del Chan della Scuola Meridionale. Racconta che, mentre si trovava su una nave attraccata al porto, impossibilitata a sbarcare a causa di una tempesta, ebbe il suo primo incontro con un monaco buddista. Era il cuoco di un tempio sulle montagne; Ero lì per acquistare merce giapponese. Dopo aver parlato un po’, Dōgen chiede al monaco cuoco di restare sulla nave e di istruirlo, approfittando della tempesta. “Non posso”, risponde il monaco, “ma vieni a trovarmi al monastero quando vuoi.” “Perché non puoi?” insiste. “Perché devo cucinare.” Il giovane giapponese, che all’epoca credeva che la spiritualità fosse qualcosa di più importante della cucina, insisteva: “Non può qualcun altro fare il tuo lavoro mentre smette di piovere?” Il monaco cuoco rise: “Non puoi aspettarti che qualcun altro faccia quello che devi fare tu”. E uscì nella tempesta. Mi piace pensare che questo racconto, che ovviamente è una lezione religiosa, possa essere adottato anche come precetto per un qualunque laboratorio letterario: bisogna imparare a pulire il proprio riso.

Qualcosa di importante che separa lo Zen dalle altre scuole di buddismo mahāyāna È l’idea che la meditazione non ha alcun oggetto ulteriore, poiché è, di per sé, il proprio obiettivo. Questa è una discussione importante all’interno del Buddismo, la maggior parte delle cui tradizioni distinguono tra loro dhyāna“meditazione” e prajna, “illuminazione o saggezza”. DT Suzuki dice testualmente in un passaggio che «dhyāna È prajna»: non esiste illuminazione se non la pratica. Dōgen ci dice anche che tutti gli esseri hanno Bussho, “Buddha Nature”, semplicemente non abbiamo gli strumenti per farcelo percepire. Non so nemmeno se attrezzo è la parola giusta, perché quando si comincia a parlare di Zen tutto crolla, come osservava il Maestro Nyogen: “Nel momento in cui qualcuno parla del suo Zen, gli appaiono davanti una coppia di mostri”.

Ciò che voglio stabilire attraverso questa analogia tra lo Zen e i processi di scrittura è la mia convinzione personale che il mestiere letterario è più coerente nella misura in cui non ha uno scopo. La “conquista” del testo o, peggio ancora, la conquista della fama e del successo sociale o del potere-di-illuminare-e-salvare-le-masse-oppresse-dal-capitalismo mi sembrano inclinazioni secondarie la mente di uno scrittore. Non propongo che l’arte sia qualcosa di puro che dovrebbe essere praticato da una torre d’avorio: tutta la scrittura ha un’ideologia e un’evidente partecipazione sociale, una postura verso il mondo. Ma non credo che sia necessario vincere un premio o conseguire un dottorato in sociologia perché questa condizione si manifesti. Si scrive per capire, non per esprimere. Ritengo che limitare questo impulso neurobiologico alla teoria del campo o all’esercizio post-autonomo sia, per non dire ingenuo: sia addirittura fallace. So che molti (e anche molti scrittori contemporanei) non saranno d’accordo con me. Non ho alcun problema con esso.

Una peculiarità della routine della creazione è che è novelizzabile. All’interno dell’industria della produzione di romanzi, poesie, ecc. esiste un piccolo sottosettore di competenza: “chiedi allo scrittore come fa.” Forse stiamo cercando una ricetta magica che ci permetta di perfezionare la nostra esperienza di scrittura. Credo che non esista una ricetta del genere. Tornando allo Zen e allo zazen (la classica posizione di meditazione seduta), direi che l’unica cosa che esiste è questa: la posizione di sedersi – nel nostro caso – per scrivere.

Ci sono, tuttavia, scrittori che parlano continuamente del loro processo di creazione. Ci sono altri che non lo fanno; Forse è difficile per loro, o semplicemente non sono interessati. Appartengo al primo gruppo: quelli di noi che abbattono ossessivamente l’abitudine, costruendo una poetica, decostruendola, articolandola, disarticolandola, vedendola attraverso il proprio lavoro e anche quello degli altri.

Un corpus che riassume una buona base subindustriale di questo mestiere novelizzabile è la sezione “The Art of Fiction”, compilata nel corso di decenni da La Rassegna di Parigi. Questo è un forum storico dove dagli anni Cinquanta sono apparse alcune delle interviste più suggestive con gli scrittori. Di lì sono passati EM Forster, Eudora Welty, Ernest Hemingway, William Faulkner, Joan Didion, Joyce Carol Oates, Heinrich Böll, John Cheever, Alice Munro, solo per citarne alcuni. Molti di loro parlano di come concepiscono il testo o la tecnica, ma anche di qualcosa di più basilare: come affrontano il processo materiale della loro scrittura.

È noto l’aneddoto che Hemingway scrisse in piedi. Ci sono delle foto: una scrivania, la macchina sopra alcuni libri, lui in piedi. Voglio immaginare che questo gli abbia dato non solo un ritratto ma anche un respiro particolare. Ma la routine dello scrittore non è mai statica: esistono anche foto dello stesso autore che scrive seduto. Hemingway ha scritto in piedi per qualche periodo della sua vita. La routine cambia man mano che cambia l’individuo e, soprattutto, a seconda che il processo sia soddisfacente o meno.

Un momento forse meno utile nella scrittura di Hemingway è la crisi creativa causata dalla ricezione dell’ Dall’altra parte del fiume e tra gli alberi, un romanzo dai toni autobiografici. Intorno ai cinquant’anni, l’autore si era innamorato di una giovanissima ragazza con la quale aveva trascorso alcuni giorni in Italia, e da quell’esperienza scrisse questo volume piuttosto ingombrante, se non ricordo male, con molta – forse troppa – dedizione alla co-protagonista E così è andata con le critiche. C’è qualcosa per cui quasi nessuno scrittore è preparato, non importa quanto sia bravo o quanto successo abbia avuto o quanto sia giovane o vecchio: la scarsa accoglienza di uno dei suoi libri. Non di rado il proprio talento viene divorato da un bisogno narcisistico e nevrotico di approvazione assoluta.

Hemingway si ritira allora nella sua casa a Cuba e si isola come una sorta di eremita, un’immagine molto contraria a quella che il mondo aveva di lui: un uomo d’azione che scriveva libri. In questo tipo di ritiro scrive Il vecchio e il mare; un libro che, in qualche modo, è anche poetico. Se si segue l’aneddoto autobiografico attorno all’aneddoto narrativo, il personaggio di quel bel novellino potrebbe essere interpretato come un alter ego del suo autore. Una rappresentazione dello scrittore in lotta con gli squali della critica letteraria (e, peggio, con gli anni-squalo, che prima o poi rovineranno il nostro senso della prosa), che lo priva della pesca (chiamiamola gloria letterariachiamata amore dalla coda verde), ma che alla fine sconfigge dal suo stoico autoconfinamento su una barca o su un’isola. I libri non parlano mai di niente di più di ciò di cui parlano. A volte i libri parlano anche di un cambiamento radicale nella routine.


Julián Herbert (Acapulco, 1971). È scrittore, editore e professore di letteratura. Il suo lavoro è noto per la costante sperimentazione del linguaggio e l’incrocio di generi, in cui convivono sia riferimenti storici e classici della letteratura sia allusioni alla cultura pop e alla vita quotidiana. Tra i suoi libri ci sono canto graveA, Portami la testa di Quentin Tarantino E Ora immagino le cose.

I saggi della raccolta Interior Landscape analizzano l’atto riflessivo come evento, come precipitazione di una soggettività: è pensato, elaborato, materializzato, rifatto. È in quello stato di discernimento che l’ebollizione della vita – ciò che si vive e ciò che si legge – si trasforma in ciò che sarà creato. gristormenta.com/paisaje

 
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